di Wallace Shawn
Produzione Teatro e Società e Teatro di Roma – Teatro Nazionale con la collaborazione di Amat e Comune di Pesaro
Traduzione Monica Capuani Regia Veronica Cruciani con Federica Fracassi
scene Paola Villani
video Lorenzo Letizia
luci Omar Scala – Gianni Staropoli drammaturgia sonora John Cascone
Questo monologo è un’elaborata denuncia del capitalismo globale, feroce e ironicamente divertente, che viene messa in bocca ad una donna benestante, consapevole di ogni paradosso, mentre guarda indietro ad una vita agiata resa possibile dalla povertà degli altri. La protagonista è una viaggiatrice senza nome che si trova in un hotel di un paese povero e lontano dove è in corso una rivolta. Lei sta vivendo la propria guerra civile, ha una febbre che la fa rabbrividire e sprofondare in una più profonda nausea esistenziale. Ad un certo punto ha una rivelazione improvvisa e accecante: le sue presunzioni e il suo privilegio di persona liberale, istruita e benestante si basano sulla miseria che altre persone vivono nel mondo. La malattia è il capitalismo stesso. Questa donna è alla ricerca di risposte. Tutto ha un prezzo? Le persone? Uccidere? Cosa ci dà il diritto di stare meglio dei poveri? Perché insistiamo nel chiedere il meglio per noi stessi e i nostri figli quando le altre persone non hanno quasi nulla? Queste sono le domande, che molti di noi nella vita cercano di ignorare. Shawn riesce a parlare in maniera davvero incisiva e profonda della nostra relazione con il nostro mondo, la nostra ricchezza. Nello spettacolo, come quando hai la febbre, con i suoi sogni offuscati e pensieri ultraterreni, ciò che è stato discusso passerà e tutto tornerà alla normalità e la stessa protagonista tornerà al sicuro.
Le verità contenute in questo testo, e il pensiero che provoca, sono così potenti che bisognerà sforzarsi di far vivere allo spettatore un’esperienza piuttosto che farlo assistere soltanto ad uno spettacolo. L’attrice nella rappresentazione teatrale dovrà creare un’atmosfera incredibilmente intima con il pubblico parlando come se stesse facendo una confessione più che un’opera teatrale. Il racconto dovrà avere un’ intensità febbrile; gli aneddoti si confondono con le autoaccuse, i legami tra il privilegio del Primo Mondo e il dolore del Terzo Mondo vengono alla luce, arrivando con l’improvvisa forza di una rivelazione. Il cuore della questione non è tanto crogiolarsi nella colpa liberale ma fare un’analisi accurata del perché tale colpa non è sufficiente.
La protagonista de La febbre attraversa numerosi livelli di lucidità e sprofondamento nel suo incubo.
La scena di questo spettacolo deve essere in grado di ripercorrere quegli stessi livelli, mostrandoci una donna capace di porsi, e lucidamente porre al pubblico, le domande che la attraversano. Allo stesso tempo parlarci del delirio che la inghiotte.
Immaginiamo un lavoro con un importante intervento video di immagini. Esiste dunque un “fuori” dall’incubo, in cui l’attrice è presente su palco, elegantemente vestita, e apparentemente lucida. E un “dentro”, in cui la scena non è quella del letto, ma quella del pavimento di un bagno. La donna, protagonista e borghese, non parla distesa sulle morbide lenzuola di un letto d’albergo, ma, per assoluto contrasto, la troviamo nella parte più squallida della sua febbre, nel luogo che annienta i privilegi del lusso e del denaro, mentre si trova abbracciata ad un water del bagno di quello che possiamo intuire come un albergo, e si stende nella vasca, come a simulare il letto che le forze non le bastano a raggiungere. Il pavimento del bagno, è inclinato, in modo da rendere il movimento dell’attrice, difficile. La donna ha l’andatura costretta, di chi fatica a reggersi in piedi.
Nel gioco di contrasti, incombente sul pavimento del bagno, vi è una seconda superficie, un plafon altrettanto inclinato e di uguali misure. Sembra una vetrata, e verrà usato come superficie di proiezione, in cui l’attrice ritrova se stessa nei mille volti del delirio che la travolge.